venerdì 9 ottobre 2009

Una gita scolastica

Annunzio con giusto orgoglio che ho superato un’altra prova di sopravvivenza...
Ho accompagnato in gita per una giornata i miei sixth formers (i 16 - 18) senza che nessuno ci lasciasse le penne o restasse seriamente ferito. Per di più la destinazione era molto poco culturale: un “adventure park” dove ci hanno fatto arrampicare, strisciare in tunnel sotterranei e soprattutto fare una specie di skateboard giù per la collina che DECISAMENTE non è roba per me: il mio didietro deve ancora rimettersi. I ragazzi continuano a parlarne dopo settimane.
Mi chiederete: ma il viaggio di Istruzione, i saperi etc. etc.? In realtà, come ha puntualizzato il capo della sixth form, la temutissima (anche dal sottoscritto!) Ms N., NON era un viaggio di Istruzione, espressione qui poco usata, ma di “team building”. A dirlo terra terra: un esperienza che permettesse ai marmocchi cresciuti di apprezzarsi l’un l’altro, di avere qualche ricordo buffo in comune, di sperimentare in modo diverso dal solito cosa significa adattarsi, raccogliere una sfida, collaborare, fare uno sforzo, etc. Un esperienza di socialità che abbatte per un giorno (e magari oltre) i muri più o meno artificiali fra i ragazzi e anche fra “noi” e “loro”. Insomma, quello che, secondo me, è sempre stato lo scopo principale delle gite scolastiche, fin da quella raccontata nel film di Pupi Avati (magari senza tresche alunno – professoressa, va’!)
Quando ero alunno io, ricordo una discussione accesa con la mia stimatissima prof. di Storia e Filosofia proprio sulla funzione della gita scolastica, in cui io sostenevo il trascurato valore della socialità a scuola. Sono passati diciotto anni (oddio…) e io sono passato dall’altra parte della cattedra, ma su questo non ho cambiato idea. Per carità, in Italia ha un grandissimo valore portarli a vedere qualcosa di artistico e/o naturale: sarebbe probabilmente una mostruosità andare all’adventure park quando abbiamo Firenze o le Dolomiti. Tuttavia, abbandonare in parte la retorica del “Viaggio di Istruzione” potrebbe portare una salutare chiarezza. E anche aiutare a porre dei limiti: siamo qui (anche) per stare insieme, ma ci sono delle regole e sono queste.
Mi viene da pensare che questo è solo un piccolo aspetto di una filosofia della scuola che c’è qui e per cui in Italia ci manca la voglia o il coraggio o l’ingenuità o la retorica. In Inglese non esistono due parole distinte per dire “Istruzione” ed “Educazione”. “Education” è imparare le leggi che regolano la velocità di una reazione chimica in funzione delle concentrazioni dei reagenti, ma è anche imparare a vivere, felice per quanto possibile, insieme alle altre persone. È anche sapere cosa fare ad un colloquio di lavoro, a una festa di diciotto anni, al primo appuntamento. Almeno, averci pensato, averne parlato con qualcuno. Essere, in qualche misura, “preparato” per la vita e non solo per l’Università .
Su questo ci sarebbe da parlare troppo. Quindi la chiudo qui, per oggi. Grato di essere sopravvissuto alla crisi di panico di Emma nel tunnel e alle battute di Giovanni (si chiama proprio così: fra i neri Giamaicani è un nome esotico e molto popolare!) che mi faceva sicura intanto che arrampicavo. Domani però vado in viaggio di Istruzione in centro a Londra, a vedere la Galleria Nazionale dei Ritratti e la Tate Modern e magari anche Regents Park. Da solo, però, perché oggi è venerdì!! Thanks God.

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